Chiara crebbe in bontà e sapienza. Teneva il conto delle sue preghiere di bambina ammassando pietruzze; si asteneva dai cibi che più le piacevano e li offriva ai mendichi. Ma il suo gesto più azzardato non poteva che essere pubblico: in uno scenario di stenti nel quale anche il più fervido dei credenti vedeva rammollire la migliore delle proprie intenzioni di fronte a quella vista. E lei era la grande e ripugnante esclusa. Munita di campanelli di avvertimento, viaggiava ai piedi di chi la portava tra miseri stracci di sudiciume e disfacimento, logora quanto niente altro poteva esserlo. I lebbrosi ciondolavano mortificati da una carità che li allontanava perché la loro giusta punizione per peccati in via di perdono colmasse la sua misura, indisturbata e intatta di ogni intervento che potesse alleviarne la sofferenza. Durante una splendida giornata di maggio, una lebbrosa si avvicinò con sicurezza ad un cerchio di donne, avventurandosi sino alla piazza. Chiara, allora meno che adolescente, ne riportò una forte impressione e così me la disse. La donna, affetta da lebbra, ci osservò, puntando su noi i suoi occhi, luminosi dentro la tumefatta resistenza del viso alla consunzione, e parlò. «Madonne, siate, allo stesso tempo, altamente schifate e commosse della mia spettacolare presenza, perché la vostra graziosa leggiadria potrebbe diventare ciò che voi vedete: me: brandelli di pelle che se ne vanno, senza neanche un “posso?” di saluto, e con essi quello che la pelle copriva, in colori che tentano il violaceo dei vini e il broccato porporino del cardinale. Oh, vedete: e via! guardate, attratte e inorridite, i moncherini che più non possono indossare guanti rifiniti o giungere al viso per distribuirvi il belletto o palpare un amante nell’alcova o indicare con gesto vezzoso il monile scelto sul banco dell’orefice. Trattenete in bocca il gusto della mia atroce vista, madonne d’Assisi. Ascoltate il tintinnio tremebondo e querulo alle caviglie della grande esclusa, accostatele un intero specchio che si riguardi come una cortigiana, pronta ad un amplesso col re; sentitela gemere di meraviglia per il proprio macilento aspetto ed invidiatela perché lo indossa come un ermellino. Ma tu, a te, dico, femmina, donna e santa, a te Chiara: tu, donna pietosa e di novella etate, tu, che soverchi in bellezza e bontà tutte le donne cittadine, fammi come te, avvicinati, sì, toccami, che di ben altro contagio c’è da avere paura. Non ti chiedo il miracolo, ma di non scacciarmi: perché sai il mio martirio e, così, puoi invocare la mia salute. Così sia.» Chiara le andò incontro, mentre sua madre, raccapricciata, non riusciva a trattenerla, e, sfilatasi di dosso uno splendido giubbino deliziosamente ricamato, glielo mise addosso per poi abbracciarla senza timore, serenamente, nonostante la stranezza di quella preconizzata santità che doveva intercedere a richiedere salute e salvezza.
Nella foto la Guarigione dei dieci lebbrosi, manoscritto dal Codex Aureus, 1035-1040, Museo di Norimberga