Martedì, 21 Maggio 2019 13:45

SULLE MEMORIE DI LUOGHI CHE SANNO

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Ovvero: riflessioni aggiuntive di un lettore che viaggia sulla scia delle conversazioni che don Chisciotte tenne con Sancho Panza

Parte prima

1- Viaggio del cavaliere

Vado dove va la carne[1]

e sogguardo la fine con la mano a schermo del sole.

Avanzo perché la bellezza di un luogo che non appare

mi sospinge verso sé,

mentre il vento basso che mi segue cancella le impronte

dietro gli zoccoli del mio cavallo.

Bassi i nugoli di polvere,

alti i voli dell’attesa:

niente di me resta che non sia la memoria di questo luogo

e del suo ventre su cui passo e ripasso negli anni.

Ma ogni volta è un’altra volta:

sulle mie spalle un altro ospite poggia la sua mano, premendovi la coscienza di un altro ricordo,

di un’altra esperienza, di un’altra speranza.

 

 2- Viaggio dello scudiero

Vado dove va la carne:

cos’altro potrei fare?

La stanchezza di questo suolo è evidente:

solchi di vecchi carri e orme stampate in profondità:

calchi di vite che hanno viaggiato in carovane.

Perché è questo il senso del viaggiare: segni sulle carni della terra,

catene che afferrano e catturano i passi dei deportati,

muli stramazzati e sciacalli sitibondi ai lati dell’agonia.

Io vado dove va la mia carne che non finisce con me che finisco.

Io non ci sarò quando qualcuno leggerà l’orma del mio passaggio

e cambierà la mia vita con la sua, rifacendomi come sono e come non sono.

È questo il senso del viaggiare: quando il suolo non custodirà più la memoria del mio andare,

un altro viaggiatore crederà di conoscermi perché questo luogo mi restituirà.

E io viaggio ancora e seguo la mia carne che mi segue.

Ed è triste scrivere di ciò che non si vuole.

 

3- Viaggio dello scudiero e del cavaliere affiancati.

Quando andiamo, andiamo dove va la carne.

Seguirla docilmente è quasi una missione,

amarla una gioia di figure.

Le nostre sagome si stampano al sole.

Su questo suolo. E su questo suolo poseremo:

le membra distese al refrigerio della luce stellare.

 

[1] È un’espressione di Darwin, non ricordo se diretta ad un amico o registrata in annotazioni personali.

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