Mancava poco al crepuscolo, ma gli ultimi raggi di sole sembravano non badarvi. Aggrovigliandosi alle foglie di un grande albero di canfora, sfuggivano al monotono grigiore della città e all’imminenza della notte. Nel cielo limpido di aprile nemmeno una nuvola interrompeva le mille sfumature di rosa e arancio, dolcemente sfiorate da un azzurro intenso e incombente. La sera aspettava, ma la sua impazienza era chiaramente intuibile: brillava già qualche stella, e Venere poco a poco si perdeva all’orizzonte. Dalla sua piccola aiuola, un tiglio si stagliava su uno sfondo di case incolori e mute, che contrastavano decisamente con la leggerezza dei suoi fiori. Il vento trasportava i canti di decine di uccelli, così armoniosi e perfetti nella loro ribelle semplicità.
L’aria era pervasa del profumo della primavera. In poco tempo le strade della città si affollarono, ma c’era da giurare che nessuno sguardo avrebbe oltrepassato il vetro di una macchina per posarsi sugli alberi, sugli uccelli e sul cielo. Nel giro di pochi minuti tornò la calma. Il sole era scomparso dietro una collina. Tutte le cose sembrarono sprofondare in un lieve torpore.
Non lontano dal tiglio e dalla canfora s’intravedevano, delimitati da siepi più o meno curate, molti giardini. Sebbene nella penombra della sera sembrassero tutti uguali, con la loro geometrica freddezza, tuttavia si poteva intuire dal tipo di piante, dalla scelta di questo o quel rampicante, dal prato, dai cespugli, che tipo di persona si celasse dietro quel verde.
Maurice aveva poco più di vent’anni e la cosa che amava fare quasi più di ogni altra era proprio questa: immaginare le vite delle persone osservando le piante e i fiori che crescevano nei loro giardini, come se vi dipendessero. La sua più grande passione era prendersi cura del giardino. Coltivava rose con una dedizione che aveva dello straordinario; spesso giungeva a considerarle sorelle, amiche, provando per alcune qualcosa di simile all’amore. Era nato in Provenza e la mitezza del clima e il rigoglio della vegetazione avevano conferito al suo carattere una eccezionale gentilezza. Suo padre aveva un’occupazione piuttosto comune in quella regione: coltivava campi di lavanda per produrne essenze. Abituato ai profumi inebrianti di migliaia di fiori e ai forti contrasti cromatici, soffrì molto quando dovette abbandonare quella terra per seguire la sua famiglia in un altrove non meglio precisato. Per molto tempo ripensò alle onde del vento tra i campi di lavanda, che da bambino lo affascinavano e spaventavano allo stesso tempo: pensava fossero glissandi di un invisibile pianista su tasti verdi e lilla. Si consolò presto quando seppe che avrebbero raggiunto una terra altrettanto bella, dove fiorivano alberi dal profumo dolcemente acre, che celavano tra un fogliame verde-lucido frutti del colore dell’oro. Sua madre era nata lì. Fu molto deluso quando vide che il paese fiabesco che immaginava somigliava in realtà a una grigia periferia, attenuata da qualche sprazzo di colore.
Maurice per natura non era incline a scoraggiarsi. Si comportava in modo spensierato, sembrava preoccuparsi di cose astratte, ma in realtà pensava molto ai problemi reali. I nuovi colori, alberi e giardini divennero per lui il simbolo di una rinascita.
Crescendo comprese che la periferia può essere ovunque: nelle grigie zone industriali sorte dove un tempo c’erano campi di grano e alberi da frutto, ma anche nei trascurati centri città. Là dove viene strappato il verde, dove si distrugge il paesaggio. Dove, in un mondo che troppo spesso dimentica la bellezza, il concetto di giardino è relegato a un angolo, posto in “periferia”. Il suo sincero ottimismo lo portava a ricercare angoli dove le piante e i fiori mantenevano intatta la loro purezza e rendevano manifesta la bellezza delle cose. Li chiamava “jardins péri-féeriques”: erano talmente belli o strani da sembrare “féeriques”, incantati.
Nel corso delle sue passeggiate serali aveva scoperto molti giardini vicini al suo concetto di “péri-féerique”, per questo s’impegnò ancora di più per immaginare quali persone li curavano.
Quella sera primaverile esplorò una zona della città a lui nuova.
All’inizio della strada, dove si poteva sentire ancora il profumo dei fiori del tiglio, era impossibile non notare un bellissimo abete rosso dalla chioma frondosa svettare con fierezza in uno spazio verde non troppo grande. Era una visione insolita, un po’ buffa, che colpì molto Maurice. Si diceva che il proprietario da giovane fosse stato un promettente violinista. Fu costretto a interrompere la carriera per la guerra e la povertà. Per lungo tempo fu lontano dalla sua casa. Trovò una ragione d’essere lavorando il legno e imparò a costruire violini di ottima fattura. Nel suo giardino non desiderava altro che l’albero che più di tutti gli era prezioso nel suo lavoro.
Dall’altra parte della strada, invece, faceva mostra di sé un pomposo giardino formale, chiuso da un cancello in ferro battuto alle cui estremità erano poste due pessime copie del busto di Nefertiti, decisamente fuori luogo. Maurice immaginava che appartenesse a una donna stancamente elegante la cui preoccupazione principale, per quanto riguardava il giardino, era controllare che la forma dei bossi fosse perfettamente sferica.
Il cielo era divenuto color cobalto. L’aria immobile era pervasa da un profumo dolcemente sensuale, leggero e penetrante. Proveniva da un giardino vicino, cinto da una siepe di rincospermi in fiore che ne celavano in buona parte la vista. Ma la bellezza era altrove: in alto, su una pergola di legno, centinaia di boccioli di rosa, intrecciandosi ai grappoli di un glicine bianco, creavano a mezz’aria una nuvola eterea e meravigliosa. Dalla casa provenivano i suoni di un pianoforte. Una ragazza cantava una romanza: se ne scorgeva la figura da una finestra. Forse furono le rose, la musica e la primavera, o forse la voce della ragazza, che risuonava del cristallo di una giovinezza intatta: Maurice ebbe la certezza di aver trovato il suo “jardin péri-féerique” e quella dimenticata bellezza salvatrice.
Quando tornò il silenzio, il ragazzo se ne andò sapendo che sarebbe tornato, mentre risuonavano nel suo animo le parole della romanza: “Immersi nel riverbero d’oro della sera, come sono solenni i boschi …”.