Mercoledì, 24 Aprile 2019 14:59

I PARADOSSI DELL'ELETTROMAGNETISMO

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INQUINAMENTO ELETTROMAGNETICO. QUANTO SIAMO DISPOSTI A LIMITARE L'USO DEI DISPOSITIVI DI CONNESSIONE? di ROBERTA FOSCARIN

Una domenica a pranzo, riuniti attorno alla tavola coi parenti, come spesso è nella tradizione del nostro Bel Paese, discutevamo di argomenti  vari  tra cui uno in particolare che aveva animato i giorni precedenti un gruppo di concittadini, portandoli a protestare contro l’ennesima antenna che da lì a pochi giorni sarebbe stata installata sull’aiuola di una rotonda sparti-traffico cittadina a ridosso di un supermercato, di un impianto sportivo, a poca distanza da una scuola, circondata da ogni parte da palazzi e palazzine. L’ennesima antenna per la telefonia mobile, di quelle che servono alla connessione wifi di migliaia di smartphone e telefonini, garantendo loro la possibilità di connettersi velocemente al web, ma che, quando te la vedi piazzare vicino a casa/scuola/lavoro/luoghi di ritrovo… ti viene la pelle d’oca perché hai paura.

Paura si, perché hai vanamente e distrattamente sentito parlare delle “onde elettromagnetiche”, quelle che appunto generano il cosiddetto “campo”, indispensabile per connettersi con il telefono cellulare, lo smartphone, l’i-phone, il tablet, il pc… ma hai anche vanamente sentito parlare della pericolosità, per la salute delle persone, dell’esposizione a quelle onde; hai sentito dire, in qualche servizio giornalistico o trasmissione  televisiva che abbia affrontato l’argomento, che causano il cancro.

E allora, adesso che l’astrattezza della pericolosità delle onde elettromagnetiche ha lasciato il passo alla concretezza di un’antenna piazzata in mezzo alle case, ti ritrovi, tuo malgrado, ad occupartene, a prendere in considerazione un problema che prima era così distante da non coinvolgerti.

È sempre così: quando tocca a te, in prima persona, la realtà è tutta un’altra cosa ed è dura!

Ne parli con parenti e amici, ti schieri dalla parte del “giusto”, quello che ti fa ritenere che no, quell’antenna, lì, non la vuoi perché è un attentato alla salute pubblica, a quella dei tuoi cari, alla tua.

Quindi progetti proteste “contro”, animato da un senso di vittimismo e di rabbia, ma anche di impotenza, quell’impotenza che ti porta a dire che le proteste si possono anche fare, che ti unirai ad esse, ma che sai che non serviranno, perché dall’altra parte, quella di chi le antenne le vuole installare, ci sono interessi che “nemmeno te lo immagini”, portati avanti da potenti lobbies al servizio del Dio Denaro!

E la discussione famigliare domenicale si fa animata tra chi paventa la catastrofe, se la proliferazione delle antenne non sarà arrestata quanto prima (non parliamo poi delle antenne di nuovissima generazione che garantiranno il cosiddetto collegamento 5G), e chi sottolinea che questo è il progresso e che inevitabilmente non si potrà arrestare, anche se farà delle vittime.

Ma è proprio così, ti chiedi e domandi ai presenti, è proprio scontato che il progresso significhi una inarrestabile corsa verso comodità che si stanno rivelando deleterie per la vita umana?

L’idea del progresso sembra essere questa: quella di una tecnologia che porti sempre più a velocizzare processi, a far raggiungere traguardi il più velocemente possibile, e poco importa, anzi nulla, dei cadaveri che lascerà lungo la via.

Il commensale più giovane, diciassettenne, dice che è inarrestabile, il progresso, e lo assimila alla velocità di connessione. Nulla più può essere fatto senza tale velocità: aziende pubbliche e private, gruppi, persone, … tutto ha valore se è connesso, e più è veloce tale connessione, più ha valore. Il presente e il futuro prossimo dell’essere umano è l’homo sapiens sapiens rapidus et coniunctus!

Ma velocità verso che cosa? Verso una fine più rapida della specie umana e del suo ambiente di vita?

Vengono alla mente quei movimenti che negli ultimi anni si sono moltiplicati e sviluppati inneggiando alla lentezza come antidoto ad una vita “fast”, frenetica, stressante, superficiale. Movimenti “slow”: dall’alimentazione, all’agricoltura biodinamica, al turismo, a discipline come lo yoga, il taijiquan, il reiki, la meditazione, ai gruppi di scrittura, lettura, alla raccolta e riciclo di oggetti, alla rinascita e diffusione dei cammini. Movimenti attenti alla riscoperta di relazioni più profonde tra le persone, senza peraltro  demonizzare la tecnologia che ci consente di connetterci e di scambiare più facilmente idee.

Le domande infatti che possiamo porci sono le seguenti: “La tecnologia può essere al servizio dell’essere umano o è quest’ultimo al servizio della tecnologia? Quale idea di progresso?”.

In una società fast, ove non ci si concede tempo,  la fine è necessariamente rapida. Vogliamo questo?

E mentre questo discorso prende l’attenzione dei convenuti al pranzo domenicale, ecco che ad uno di essi arriva un sms con una richiesta  che ha il sapore di allarme: “Non riesco più a connettermi mediante “Whatsapp!”. L’amico che l’ha inviata sta cercando aiuto per capire cosa stia accadendo alla sua connessione. Inizialmente viene attribuito il problema di connessione al dispositivo dell’amico, ma presto si comprende che l’applicazione “Whatsapp” non sta funzionando a nessuno dei presenti. Cosa mai starà accadendo? Sulle facce compare un’espressione di preoccupazione, di incredulità, che via via quasi si trasforma in panico e affannosamente ciascuno consulta un’altra applicazione: “Facebook”, ma anche questa è silente. Ecco - si pensa - non c’è campo. Il black out dei “Social” è durato all’incirca una trentina di minuti durante i quali i tentativi di riverificarlo sono stati molteplici. Ecco, si è “toccato con mano” cosa significhi essere disconnessi!

Il pensiero va subito alle famigerate antenne: non le vogliamo perché ci fanno venire il cancro ma la disconnessione ci spaventa, ci atterrisce ugualmente. Il silenzio si sostituisce ai discorsi;  ciascuno ha in mano il proprio dispositivo e verifica, incredulo, se la disconnessione riguardi anche lui, poi, dopo vani tentativi di connettersi, lo posa sul tavolo avvilito. L’atmosfera è di smarrimento, di impotenza. Quanto ci costa la disconnessione!

Ma perché ci costa così caro? quali emozioni ci scatena l’essere disconnessi?

Un “senso di esclusione”,  per esempio. La connessione ci tiene al corrente, ci rende partecipi, ci consente di dare un contributo. Può poi sfociare in una vera e propria esigenza di controllare ogni cosa, venendone a conoscenza “in tempo reale”: nulla sfugge o può sfuggire se siamo connessi! Ciò ci dà l’illusione di onnipotenza, sentimento questo che ci avvicina a Dio, vincendo la caducità della nostra esistenza. C’è chi ai social affida i propri pensieri, i propri stati d’animo; chi la propria voglia di denuncia, che spesso si estingue in lamentazione e/o rabbia, oppure gioia e allegria ma senza che ad esse facciano seguito azioni di cambiamento sociale;  chi  vi affida la propria esaltazione narcisistica di sé, con la speranza di ricevere approvazione dagli altri; chi ne fa uso per divulgare informazioni; chi per promuovere il proprio lavoro, ecc.

La connessione ci dà l’illusione di poter soddisfare immediatamente i nostri bisogni. Immediatamente, senza mediazione del tempo e della fatica. Ci basta un “click” e liquidiamo le questioni  senza dovercene occupare realmente. Quanto siamo disposti ad abbandonare tale illusione, a tollerare l’attesa, l’incertezza, la fatica, i limiti che la realtà, non quella virtuale, ci pone davanti?

La ricerca scientifica è in grado di fornirci informazioni sulla pericolosità dell’inquinamento elettromagnetico. Però, quanto siamo disposti a tenerne conto e quindi a limitare l’uso dei dispositivi di connessione per raggiungere un compromesso che non ci renda schiavi, e per giunta malati, della tecnologia?

Letto 1020 volte Ultima modifica Mercoledì, 24 Aprile 2019 15:07
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