Roberto Saviano ha dovuto di nuovo difendersi dalle critiche mosse alla fiction “Gomorra” ispirata all’omonimo libro che lo ha reso famoso in tutto il mondo e di cui è sceneggiatore insieme a Leonardo Fasoli, Maddalena Ravagli e Ludovica Rampoldi. Questa volta le critiche sono arrivate da magistrati impegnati da anni nella lotta alla criminalità organizzata. Il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho, il capo della Dda di Napoli Giuseppe Borrelli e il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, come riportato da diversi quotidiani e in particolare da “La Repubblica” che in “Rep:” pubblica la risposta di Saviano, hanno affermato che in “Gomorra vi è una "rappresentazione folcloristica e pericolosa" della camorra; si compie l’errore di "mostrare la camorra come fosse un'associazione come tante altre" ma, invece, "la camorra è fatta soprattutto di violenza", del "rischio di emulazione dietro l'angolo". Ecco la critica più pesante, l’argomento che suscita l’esigenza di riflettere sui contenuti, sulle modalità di rappresentazione di un fenomeno e sugli effetti di un’opera cinematografica o televisiva: il rischio di emulazione. Saviano si difende sostenendo che “quando un libro, un film, una serie tv raccontano le ferite senza edulcorarle, mettono a soqquadro la percezione della realtà facendo nascere una domanda: ma davvero questo accade? Una serie che racconta il male, mostra la ferita, produce sofferenza e quindi cambiamento e crescita”. A sostegno di questa affermazione pronuncia la solita domanda retorica che viene tirata fuori nelle tante discussioni di questo tipo che, di solito, riguardano la possibilità di esercitare una qualche forma di censura sull’arte: “Chi guarda il padrino diventerà Michael Corleone? Chi legge Shakespeare diventerà Riccardo III?” Ora, a meno che Saviano non voglia porre il suo libro sullo stesso piano del romanzo di Puzo e paragonare se stesso al celebre bardo, non credo che la questione possa essere liquidata con una battuta. Per tre motivi. Primo, perché se esiste un mondo di persone colte ed avvedute che sanno benissimo distinguere tra finzione e realtà, che sanno leggere criticamente il racconto di un fenomeno e trarne le dovute conseguenze superando razionalmente le pulsioni istintive; ne esiste un altro, sempre più vasto, di persone prive di uno spessore affettivo ed emotivo, dei riferimenti culturali, sociologici, di conoscenza dell’attualità necessari per condividere, come dice Saviano “la sofferenza che il male produce per avviare dentro di sé un processo di cambiamento e crescita”, di persone che non sanno distinguere con chiarezza cosa sia il male e cosa sia il bene e che da “Gomorra” assorbono solo gli aspetti superficiali legati alle azioni che compiono i personaggi, più o meno simpatici, più o meno dritti ( con le palle, secondo una certa retorica che fa da sottofondo alla serie), di sicuro presentati con una certa dose di fascino e autoreferenziali al mondo e al modo in cui vivono, senza alcuna dialettica. Da qui un possibile rischio di emulazione. A questo si aggiunga che nel nostro paese la dimensione morale ed etica è spesso uno spazio vuoto o confuso. Secondo, perché attraverso il genere della fiction televisiva, per definizione popolare, si veicolano veri e propri modelli culturali che orientano i gusti, le idee, le propensioni delle persone in generale. Quindi, una narrazione senza filtri, senza una logica oppositiva al suo interno, in cui chiunque può avere alcune caratteristiche positive, anche il soggetto più crudele e violento, può produrre simulazione. Terzo, perché se – per restare all’esempio proposto da Saviano, ma è una caratteristica, per fortuna, della letteratura di ogni secolo – nel Riccardo III di Shakespeare la ferocia e l’ambizione del duca di Gloucester, che guarda un po’ non è fascinoso, ma gobbo e deforme, dà luogo ad una lunga serie di bassezze, atti malvagi oltre ogni dire ed efferati delitti per il potere che trovano dei chiari e limpidi oppositori, per atti, parole e valori, nel duca di Buckingham e nel conte di Richmond, che nella battaglia di Boswort ucciderà il malvagio; in “Gomorra”, Saviano compone un’epica della camorra e del camorrista. Un’epica, si, un racconto di eroi moderni, belli e dannati con il taglio di capelli all’ultima moda e vestiti con abiti che tra i giovani adolescenti fanno tendenza che si combattono tra di loro. Eroi dallo sguardo intenso carico di chissà quali sottesi significati e che nascondono profonde verità che nei momenti di maggiore tensione calano con poche e smozzicate parole, ma con solennità perché non potrebbe essere altrimenti. Eroi che dettano il modo di stare al mondo. Da bravi. Uno dei personaggi principali della terza serie, Enzuccio “sangue blu” – un soprannome che suggerisce una innegabile accezione positiva – dice: “due cose contano nella vita: la sorte e i compagni”. Che bello, che animo nobile. Che cavaliere. Che non salva nessuno però. Infatti, quando deve uccidere un operaio che si è ribellato di fronte al pizzo che deve pagare sul salario lo fa davanti al figlio disabile, purtroppo – e qui proprio non va bene - non senza dover ritornare sui suoi passi perché sul suo volto gli autori ci fanno intuire qualche ripensamento. Come per Malamore, che prima di uccidere senza pietà la figlia bambina di Ciro si fa il segno della croce. Ciro, poi, l’immortale – soprannome mitico – salva addirittura una prostituta albanese dal suo amaro destino. In fondo, sono bravi questi personaggi di Saviano. Basta capire e rispettare il loro codice e si può andare avanti senza problemi ed essere felici in un mondo che ha un senso. Le figure positive, i normali che tengono faticosamente in piedi una società fondata sui valori della libertà, della giustizia, dell’onestà, del rispetto – quello vero – per gli altri spariscono in un amen, sono senza spessore, non possono esprimere una visione diversa, un altro modo di essere uomini. Insomma, dove sono gli eroi positivi? Dove il confronto tra il bene e il male? Dove sono il duca di Gloucester e il conte di Richmond? Marco D’Amore, l’attore che interpreta Ciro Di Marzio, a proposito delle polemiche nate attorno alla terza serie di “Gomorra”, come viene riportato su “Rep:” ha commentato: “La nostra è una fiction, non un documentario. Siamo liberi di raccontare la savana dal punto di vista del leone o della gazzella. E non penso sia sbagliato un modo o l'altro”. Caro Di Marzio, mi perdoni, ma io credo che oggi sia davvero molto importante il punto di vista dal quale e con il quale si raccontano le storie. Noi uomini onesti, insegnanti e genitori vorremmo leggere un racconto in cui le parti siano ben definite, dove a vincere siano le ragioni ed il punto di vista della giustizia, dove i fenomeni criminali siano intesi come tali, senza mezzi termini o ambiguità. Per costruire, anche con la letteratura, anche con la fiction, anche con il cinema un’epica di pace.
LA FICTION TELEVISIVA HA SUSCITATO LE CRITICHE DEI MAGISTRATI IMPEGNATI NELLA LOTTA ALLA CRIMINALITA’ ORGANIZZATA di Alberto Forte
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Il Nostro Presente
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