Sabato, 09 Febbraio 2019 09:43

LE PAROLE E IL LINGUAGGIO DELLA POLITICA

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PUBBLICHIAMO IL PROFONDO INTERVENTO DI ARMANDO CITTARELLI*  ALL'INCONTRO "LE PAROLE DELL'ODIO" TENUTOSI AL BIANCHINI IN OCCASIONE DELLA GIORNATA DELLA MEMORIA

C’è sempre, in ogni tipo di ricorrenza o cerimonia, sia essa civile, religiosa, politica, una certa ritualità. Probabilmente c’è anche nella Giornata della Memoria. C’è bisogno, però, di questi “giorni speciali”, di queste pietre d’inciampo nello scorrere uguale e indifferente del tempo. Tra l’altro non si è ancora finito di conoscere, e mentre gli ultimi sopravvissuti – colpiti dallo scorrere inesorabile del tempo – scompaiono, ecco che le testimonianze vengono ricordate da figli e nipoti.

La Giornata della Memoria merita di essere celebrata a condizione che si sappia, soprattutto che i più giovani sappiano, di che cosa si sta parlando. Non è un dato scontato, se Elio Lannutti, uomo maturo, senatore della Repubblica, tira ancora in ballo un libello fabbricato dalla polizia segreta dello Zar a sostegno del complotto giudaico mondiale. Ed ancora “..un periodo come la Seconda Guerra Mondiale con la sua complessità,  noi siamo abituati a semplificarla con Hitler-male, ebrei-poveretti e basta, senza comprendere la complessità storica che ha portato i tedeschi a odiare gli ebrei e poi a incenerirli.. (Rocco Casalino, portavoce del presidente del consiglio, in un vecchio filmato, smentito in seguito).

Il 27 gennaio del 1945 i primi soldati sovietici entrarono nel campo di concentramento di Auschwitz-Birkenau liberando i prigionieri e rendendo pubbliche le atrocità naziste. Ricordare non basta. E’ importante ma non è sufficiente. Il mondo continua ad andare in una direzione sbagliata.

“La terza notte di Valpurga” è tra i più importanti – ma meno conosciuti – scritti di Karl Kraus. (1)

E’ un drammatico atto di accusa – scritto nel 1933 – che scopriva le caratteristiche di inganno e violenze che da lì a breve sarebbero diventate esplicite con i campi e la pianificazione dello sterminio di milioni di esseri umani.

Kraus definisce il nazismo come <<una dittatura che oggi possiede tutto tranne la lingua>> e denuncia l’attività messa in atto dagli intellettuali tedeschi complici dei nazisti, di “svendita della parola”. Il nazismo, allora, non possiede la “lingua” nel senso che per sottometterla ai propri fini l’ha dovuta corrompere e adulterare. Ha creato una propria “lingua”, posticcia e artificiale, che diventa un formidabile strumento di dominio.

Anche il filologo Victor Klemperer (2) nel 1947, nei suoi diari esprimerà con grande precisione l’importanza del linguaggio: <<…il nazismo si insinuava nella carne e nel sangue della folla attraverso le singole parole, le locuzioni, la forma delle frasi ripetute milioni di volte, imposte a forza alla massa e da questa accettate meccanicamente e inconsciamente>>.

La prima funzione di questo linguaggio deformato è il potere della funzione propriamente eufemistica. Così l’irruzione in una casa diventa una innocente “revisione”, l’eliminazione dei partiti politici avversari e della stampa ostile “uniformazione”. I nazisti non rubano, “mettono al sicuro”; un oppositore arrestato e rinchiuso in un campo di concentramento è “in viaggio”; il termine “prelevare” può indicare tanto l’arruolamento forzato quanto la deportazione, e la posta indirizzata ad un ebreo – che nel frattempo è stato deportato – torna al mittente con la dicitura “destinatario emigrato”. Il verbo “betreun”, che significa “accudire”, “prendersi cura di qualcuno”, nella lingua dei nazisti viene utilizzato per indicare azioni quali: controllare, influenzare, dominare, ed anche “deportare” e “uccidere”.

Altra funzione di questo linguaggio è l’uso “minimizzante”, tanto che le violenze quotidiane di cui i nazisti si rendono colpevoli diventano “intemperanze di singoli”, “spiacevoli incidenti” che sono comunque “fenomeni marginali”.

Poi, c’è la lingua del disprezzo. Esemplari saranno a riguardo l’uso di “pezzi” per designare i prigionieri dei campi di concentramento, o quello del termine “liquidati”, applicato ai partigiani uccisi. E’ l’uso di termini dispregiativi a trasformare le persone in cose, a minimizzare e rendere meno grave – e quindi più facilmente accettabile – quanto accaduto.

Tutti gli usi citati del linguaggio hanno un tratto in comune: la negazione della verità. I nazisti negano con pari disinvoltura ciò che hanno compiuto e ciò che hanno affermato. Se i fatti sono troppo evidenti per poter essere negati, il carnefice si fa vittima in quanto “incompreso”: <<creda a noi, dispiace a tutti noi l’incomprensione contro cui urtano a volte le misure da noi prese>>. Infine, nei casi più estremi gli stessi nazisti si vedono costretti a “condannare” ciò che fanno, cosicché, nota sarcasticamente Kraus, si può assistere al singolare spettacolo di <<una classe dirigente che esprime continuamente la sua disapprovazione per gli abusi che approva>>.

Gli stessi discorsi di Hitler contengono un vasto campionario di dichiarazioni contraddittorie: affermazioni tra loro contrarie, dichiarazioni solenni rovesciate pochi giorni dopo averle pronunciate, ed infine dichiarazioni ritrattate, ma in modo da confermarne il significato. Ma la verità non viene soltanto negata, essa viene anche e direttamente delegittimata, da una strategia resa possibile, non soltanto dal possesso di tutti gli organi di informazione e dalla complicità di non pochi intellettuali, ma anche da una circostanza oggettiva : il fatto, cioè, che è l’enormità e la mostruosità stessa di ciò che succede a renderlo incredibile. Si pensi a quanto dicevano le SS dei campi di concentramento ai prigionieri, come ricordava Primo Levi (3): <<…nessuno di voi rimarrà per portare testimonianza, ma se anche qualcuno scampasse, il mondo non gli crederà… la gente dirà che i fatti che voi raccontate sono troppo mostruosi per essere creduti: dirà che sono esagerazioni della propaganda alleata, e crederà a noi, che negheremo tutto, e non a voi>>.

Così la ferocia nazista intendeva proteggersi, complice l’atteggiamento di quella <<umanità che non ammazza, ma che è capace di non credere a quello che non vive direttamente>>.

C’è poi la costruzione della menzogna, con l’utilizzazione di slogan e frasi fatte, i cliché.  E’ così che vengono costruiti e propinati alle masse i miti reazionari: dal culto della “Germanicità” all’idealizzazione delle vicende del Partito Nazista (come i “martiri” delle SA, puri e semplici assassini a loro volta assassinati su ordine dello stesso Hitler), il totale rovesciamento della verità storica sulla prima guerra mondiale (per cui la Germania da paese aggressore diventa paese aggredito) alla costruzione del Nemico: il “Comunista” e l’”Ebreo”.  Questa costruzione del Nemico  – interno non meno che esterno – è il vero capolavoro ideologico del nazismo, che riesce a distogliere lo sguardo dei cittadini dai gravi problemi sociali e a creare un comodo capro espiatorio per tutto quanto avvenuto in Germania negli ultimi anni (dalla guerra e sconfitta militare, dalla disoccupazione alla fame).

Anche la stampa e la radio giocano un grandissimo ruolo nella costruzione dei miti reazionari del regime e nella falsificazione della realtà, anche tra il macabro ed il grottesco, come quando un quotidiano descrive il campo di concentramento di Dachau: <<con le istituzioni del servizio religioso e delle lezioni statali, si può paragonare ad un internato>>, ove per di più si pratica <<un lavoro educativo>>.

La menzogna ha i suoi manovali, ma anche i suoi cantori: gli intellettuali che hanno scelto di appoggiare il Terzo Reich, “giustificandolo” teoricamente.  Tra i maggiori Martin Heidegger (4) che abbracciando la parola d’ordine nazista del vincolo di “terra e sangue” si fa “sostenitore della violenza” nazista. Ancora più diretta l’esaltazione della violenza offerta da Oswald Spleger (5), per il quale <<essere una bestia feroce conferisce all’uomo un alto rango>>, fino a Gottfried Benn (6) per il quale con il nazismo <<non abbiamo a che fare con forme di governo ma con una nuova visione della nascita dell’uomo>> e <<forse si tratta dell’ultima grandiosa concezione della razza bianca, probabilmente di una delle più grandiose realizzazioni dello spirito del mondo>>.

Il nazismo rivaluta e addirittura dà un valore positivo al “fanatismo” e alla “cecità” (l’avverbio “ciecamente” è adoperato in accezione sempre positiva dai nazisti). Il nazismo sostituisce la parola “filosofia” – in quanto legata a contenuti e modalità di esposizione razionali – con la “intuizione” o “visione del mondo”.

E’ quasi banale osservare che la potenza delle armi ideologiche e linguistiche di manipolazione, non è diminuita dai tempi del Terzo Reich ad oggi. All’inizio, c’erano solo quelli che definivano l’Olocausto un’invenzione o non consideravano l’Aids una malattia, ma una punizione divina. Poi, sono arrivati gli scettici del global warming e dei vaccini. Sempre più insistenti, sempre più mainstream. E oggi abbiamo i negazionisti al potere. Ministri che strizzano l’occhio ai no-vax o creano emergenze immigrati inesistenti. Presidenti e premier che governano a suon di bufale.

Il negazionismo è molto pericoloso.

 In Sudafrica, per esempio, l’ex presidente Thabo Mbeki, influenzato da chi non credeva all’esistenza dell’Hiv, non aveva implementato un programma di terapie con retrovirus: questa decisione è costata la vita a 330mila persone. Lo stesso pericolo lo corrono i bambini immunodepressi che vanno a scuola con i figli di no-vax. Ma quale motivo spinge la gente a mettere la testa sotto la sabbia? Queste persone desiderano che qualcosa non sia vero. Non è ignoranza, stupidità o mendacità: i negazionisti mirano a creare una realtà a loro conveniente. Post-verità e fake news hanno legittimato chi vuole cancellare la verità. Chiunque abbia una connessione Internet può dire la sua. Questa profusione di voci, questa cacofonia di opinioni, sono sufficienti per instillarci il dubbio. Ora con Donald Trump e i suoi tweet si è arrivati non alla costruzione di una realtà alternativa credibile, ma l’imposizione di una visione del mondo disancorata dall’esistente e interamente fittizia. Hanno calcolato in 7mila, finora, le sue fake news.

Nel Seicento era stato difficile mandar giù l’idea che la Terra gira intorno al sole. <<Sono stato fermo tutto il giorno, stamattina il sole stava di là, adesso sta di qua, quindi si è mosso lui>> sembrava un ragionamento di buon senso. <<Lei ha la pelle nera, io bianca, quindi ci sono le razze>>, è un discorso altrettanto ricco di buon senso, e altrettanto sballato. E quindi ci vorrà ancora un po’ per digerire il dato di fatto che le differenze biologiche sono variazioni su una tavolozza i cui colori sfumano impercettibilmente l’uno nell’altro.

Giusto ottanta anni fa, nel 1938, l’Italia varava le leggi che privavano dei diritti civili i cosiddetti cittadini italiani di razza ebraica, e insieme a loro dieci milioni di libici, somali, eritrei e abissini, sottoposti all’occupazione coloniale italiana.

Un documento oggi noto come Manifesto degli scienziati razzisti: dieci slogan, culminanti nel famoso <<E’ tempo che gli italiani si proclamino francamente razzisti>>. Era cattiva scienza quella del Manifesto, e non c’era bisogno di aspettare lo studio dei genomi per accorgersene. Ma un documento del genere rivela il timore che, senza qualche giustificazione scientifica, gli italiani, gli italiani degli anni Trenta del fascismo trionfante, avrebbero potuto storcere il naso davanti alle nuove leggi razziali. Oggi invece il discorso razzista prescinde da ogni rapporto con ciò che dice la scienza. Le politiche discriminatorie vengono invocate attraverso parole d’ordine (“Prima gli italiani”, “Stop invasioni”, “Padroni a casa nostra”, “Schiavi dell’Europa? No grazie”) che non hanno bisogno di giustificazioni, men che meno scientifiche.

Le parole hanno deciso la nostra vita e il nostro rapporto con la tecnica. Le parole ci hanno permesso di avere un “pensiero”, di costruirci quali esseri intelligenti in grado di usare le mani.

Forse è vero quel che sostiene Richard Rorty (7): “Tutti gli uomini dispongono di un certo numero di parole di cui si servono per giustificare le proprie azioni, le proprie convinzioni e la propria vita. Sono le parole con cui esprimono stima per gli amici e disprezzo per i nemici, i nostri progetti a lungo termine, le nostre più profonde incertezze su noi stessi e le nostre grandi speranze. Sono parole con cui raccontiamo, a volte guardando al futuro e a volte retrospettivamente, la storia della nostra vita”.

Nell’attuale società della comunicazione le parole hanno, prima di tutto, un potere di divulgazione.

Le parole – in apparenza senza significato – composte in slogan, possono essere supinamente accettate ma se discusse possono creare capacità critica. Il potere divulgativo delle parole può aiutarci a sviluppare un ambiente democratico o, all’opposto, costituire un elemento di tirannica esclusione. Da quando l’uomo preistorico ha scoperto la parola e la mano, come suoi primi attrezzi utili a modificare la materia, la regola della tecnologia è sempre la stessa. La parola invece, è l’archetipo, il mondo nuovo. Per vivere in un habitat congeniale a noi serve la parola.

La crisi del linguaggio politico è una minaccia diretta per la democrazia. La salute del sistema democratico dipende dalla  nostra capacità di comprenderci gli uni con gli altri, di capire i punti di vista diversi dai nostri, e così di avanzare insieme verso la soluzione dei problemi comuni.

Questa crisi è il segnale di un male più profondo: la scomparsa di regole comuni nella sfera pubblica, di un’etica condivisa, di un patto di cittadinanza che ci unisce nel rispetto reciproco. Quando il linguaggio pubblico impazzisce può succedere come in America, che si scopre che un terzo degli elettori sono contrari alla riforma sanitaria detta Obama-care, però vogliono salvare l’Affordable Care Act… che è esattamente la stessa legge chiamata con un nome diverso. Il livello d’informazione sulle politiche pubbliche s’inabissa, mentre prevale la pancia, l’istinto, l’emozione convogliata da tv e social media. Una tendenza a crogiuolarsi in una cultura del vittimismo, a esternare lamenti e recriminazioni a non finire, prima di tutto amplificate dai social media.

Il modo in cui si sono evoluti i social media è riassunto nel passaggio dalla fotografia al selfie, ciascuno vuole anzitutto l’immagine riflessa di se stesso. L’obiettivo non è rivolto verso il mondo esterno ma verso l’utente. A Facebook affidiamo la cronaca delle nostre emozioni, non un resoconto oggettivo. Tra l’altro questa deriva ha contagiato anche i media tradizionali che ormai sono invasi da confessioni e autobiografie.

E’ venuto meno ciò che Aristotele ricercava, un equilibrio fra ragione, identità, sentimenti. Dal cambiamento climatico ai vaccini, i dati statistici, i risultati dell’analisi scientifica, insomma i fatti, vengono ignorati per dare spazio alla narrazione delle nostre sofferenze, paure, rancori.

Un istante dopo aver brutalmente assassinato il marito Agamennone e la sua amante Cassandra (siamo nella tragedia di Eschilo, Agamennone) Clitennestra apre le porte del palazzo e annuncia a chi la attende là fuori: <<Dire l’opposto a quanto prima io dissi per opportunità, non è vergogna>>. Questa frase la conosciamo, quante volte ne abbiamo constatato l’ispirazione in certi politici. Per esempio in Trump, per il quale la “verità” non è un insieme di fatti ma piuttosto un’accozzaglia di sensazioni, di desideri, di paure, di pregiudizi e di istinti. La “verità” è ciò che penso o che voglio ora, in questo momento, ma fra un istante, chissà, forse penserò e vorrò qualcos’altro, e la verità sarà un’altra. Se un programmatore di videogiochi parlasse così, nulla da eccepire, è la sua professione, il suo mondo, che noi possiamo accettare o rifiutare. Ma se a pensare e ad agire in questo modo è il presidente degli Stati Uniti, l’uomo più forte e influente sulla faccia della terra, allora tutti noi abbiamo un problema. Ciò che è avvenuto negli Stati Uniti non è un semplice passaggio di poteri ma una scossa all’equilibrio vitale tra logica e istinti primari, tra una concezione democratica del mondo e una estemporanea, tra leggi e pulsioni. E siccome Donald Trump è l’uomo più influente e potente al mondo le sue convinzioni concedono legittimità ad altri, in molti paesi, a cadere nella tentazione di una politica xenofoba nei confronti delle minoranze, di odio in generale, di umiliazione delle donne, di disprezzo di chi appartiene a un’altra religione e di esclusione di chi non è “dei nostri”.

Non tutti i populisti sono per forza fascisti ma è vero che l’eco degli anni Trenta è percepibile. Mussolini fu un precursore e un maestro nel fingere una diversità radicale fra se stesso e il ceto politico tradizionale, ipocrita e falso per definizione.  Il populismo vince attraverso il degrado dell’informazione, il dilagare della volgarità, il prevalere degli estremi. Tutto ciò viene favorito dalla compressione dell’attenzione.

Gli antidoti al populismo dei demagoghi sono la cultura e i livelli d’istruzione e di scolarità. Solo che per elevare il livello culturale del nostro Paese, la cui popolazione, secondo la classifica stilata nel 2017 dall’Ocse, è all’ultimo posto in Europa per la comprensione di un testo scritto, ci vuole molto tempo.

A questo proposito è necessario rendersi conto che tutte le scuole secondarie – non solo i licei - sono scuole di formazione, perché prima delle competenze, che si possono imparare anche dopo all’università, occorre formare l’uomo, attraverso l’educazione del sentimento, che è un fenomeno culturale e non naturale come l’impulso e l’emozione, la sensibilizzazione per la politica come governo della città, per non sentir più persone (studenti compresi) che dicono “di politica non me ne intendo”, la condivisione di valori che una comunità adotta non perché li ritiene immutabili, eterni o scesi dal cielo, ma perché li considera i più idonei a ridurre la conflittualità e a salvaguardare l’ambiente in cui si vive. E tutto questo per evitare di oltrepassare quel limite oltre il quale si entra nel mondo della disumanità, come nel caso dei migranti lasciati in mezzo al mare stipati sulle navi che li hanno soccorsi, o come nel caso della disposizione di Trump che ha separato i bambini dai loro genitori. Perché quando si oltrepassa questo limite allora tutto può accadere, anche le cose più terribili che noi europei abbiamo già sperimentato. Ma per questo occorre la scuola, tanta scuola, con classi che non superino i 12-15 studenti, per poterli non solo istruire, ma anche educare, con professori scelti anche per la loro capacità di comunicare, affascinare, trascinare perché, come dice Platone, si impara per imitazione, partecipazione, fascinazione. E infine una scuola aperta oltre gli orari scolastici, come luogo di socializzazione.

Quando prevalgono gli istinti ci si riduce a inseguire piaceri momentanei. E’ così anche nella politica. I greci ci spiegano che l’eros è fondamentale perfino nella sfera pubblica, dove serve ad affrancarci dalla demagogia dei populisti che parlano al ventre, alla pancia. Pericle fu un grandissimo statista e oratore, perché sapeva sedurre i cittadini con l’eros, spingendoli a seguire altre strade e a non rimanere vittime della loro paura. Oggi, rispetto al timore dei migranti, Pericle direbbe “non abbiate paura”. Non seguirebbe i sondaggi, spingerebbe i cittadini a ragionare.

Stalin, con il tatto e la delicatezza che lo contraddistinguevano, una volta ha detto che una morte è una tragedia, un milione di morti è statistica. Anche se questa frase fa indignare sarebbe difficile affermare che è del tutto infondata nel mondo in cui viviamo.

Il “troppo grande” ci lascia “freddi”, perché il nostro sentimento di reazione si arresta alla soglia di una certa grandezza. Se muore infatti un congiunto a cui eravamo legati, soffriamo, se muore il nostro vicino di casa facciamo le condoglianze, se ci dicono che ogni otto secondi muore di fame un bambino nel mondo, questa finisce con l’essere solo una statistica, che si stenta ad approfondire per non toccare con mano la nostra impotenza di fronte a una simile situazione.

Karl Jaspers (8) ha scritto: “Non credere che l’umanità progredisca sempre. Talvolta può anche regredire e rimanere per molto tempo in questa regressione, se non addirittura estinguersi, nel senso di perdere per sempre i tratti che fino ad ora ci consentivano di riconoscere in un individuo un uomo”.

<<Quando si inceppa il sentimento dell’orrore? Esiste nei nostri vissuti una gerarchia dei sentimenti? Sappiamo qualcosa dei morti innocenti in Siria, in Iraq, in Afghanistan, dei milioni di morti in Africa a causa di pulizie etniche e di massacri indiscriminati? Abbiamo mai rivolto un pensiero a chi lascia la sua terra e, rischiando la vita che nella sua terra sarebbe già perduta, viene da noi con quell’unica forza che gli detta la disperazione? Oppure abbiamo imparato anche noi a chiamare le guerre “missioni di pace”, i massacri “danni collaterali”, le torture “pressioni fisiche”, 

le pulizie etniche “trasferimento di popolazione”? E per restare da noi, non siamo colpiti dalla condizione attuale dei giovani che, a differenza dei loro genitori, non hanno davanti un futuro che li attragga e li motivi; o la condizione di molte giovani donne uccise dagli amanti da cui si sono congedate; la condizione dei senzatetto che mangiano alla mensa dei poveri e dormono sotto i portici; le condizioni di vita, queste sì disumane, a cui sottostanno per 15 o 20 euro a giorno quegli immigrati che raccolgono frutta e pomodori che acquistiamo nei supermercati senza neppure dedicare a loro un pensiero?>>

Che rapporto abbiamo con la realtà, come la percepiamo? Non tutti vediamo la realtà allo stesso modo, ma chi si discosta troppo o ha qualche problema percettivo o è in malafede. Siamo diventati collettivamente più egoisti? Incapaci di cogliere i sentimenti altrui e tenerli in considerazione prima di parlare o agire? Secondo alcuni studi sì. Ricercatori dell’Università del Michigan hanno studiato per dieci anni gruppi di studenti di diversi college americani ed è emerso come la capacità di provare empatia, e quindi di praticare l’altruismo, è crollata del 40% tra gli studenti americani dopo il 2000. Mentre si è impennato il narcisismo: l’attenzione smisurata verso di sé. Sono risultati che spiegano come, all’improvviso, considerazioni delle quali ci saremmo vergognati, ora sono completamente sdoganate.

Alcune hanno assunto la forma del “buon senso”, e Michela Murgia, nel suo ultimo libro “Istruzioni per diventare fascisti”, nel quale ha dato prova di uso sapiente del paradosso e dell’ironia, ne ha fatto un breve elenco, dalla prima: “Il suffragio universale è sopravvalutato”, e continuando: “Non abbiamo il dovere morale di accoglierli tutti”, “Lo stupro è più inaccettabile se commesso da chi chiede accoglienza”, “Con la cultura non si mangia”, “E comunque esiste una famiglia naturale”, “Destra e sinistra ormai sono uguali”, “Uno vale uno”, “ I giornalisti sono tutti servi del potere”, “E’ finita la pacchia”, “Bisognerebbe sapere quanti sono, censirli” e l’ultima: “Se ti piacciono tanto, portateli a casa”.

Piero Calamandrei sosteneva che se la società fosse un corpo, la scuola sarebbe un organo ematopoietico, cioè il luogo dove si forma il sangue che porta nutrimento ad ogni cellula. La metafora è illuminante per chi avverte l’affanno dovuto alla pericolosa anemia di cui ci stiamo ammalando. Aveva ragione Don Milani a dire che il popolo è povero, soprattutto perché è povero di parole. Ma per essere uguali non bisogna diminuire le parole per tutti. Anzi, e le parole come la cultura, nella scuola non si trasmettono, si costruiscono pezzo a pezzo, con tenacia e nel tempo. Solo sperimentando quanto sia bello <<sfregare e limare i nostri cervelli gli uni contro gli altri>>, come auspicava Montaigne, si potrà contrastare chi pensa che il futuro si affronti chiudendosi dentro a un muro. E, soprattutto, bisogna rimanere coraggiosi, con Il cuore aperto e il desiderio di coincidere con qualcuno, come fanno le rime, nel finale di versi, di quella poesia che nasce quando tutto sembra perduto.

NOTE:

  • 1-(Karl Kraus nasce il 28 aprile 1874 a Gitschin, in Bohemia, città oggi appartenente alla Repubblica Ceca. Scrittore, giornalista, saggista e poeta è generalmente noto come uno dei principali satirici di lingua tedesca del XX secolo. Karl Kraus muore a Vienna il 12 giugno 1936)
  • 2-Victor Klemperer è stato un filologo e scrittore tedesco.  Nascita9 ottobre 1881, Gorzów Wielkopolski, Polonia. Decesso11 febbraio 1960, Dresda, Germania
  • 3-Primo Michele Levi è stato uno scrittore, partigiano e chimico italiano, autore di racconti, memorie, poesie, saggi e romanzi. Nasce a Torino il31 luglio 1919, dove muore l’ 11 aprile 1987.
  • 4-Martin Heidegger è stato un filosofo tedesco. È considerato il maggior esponente dell'esistenzialismo ontologico e fenomenologico, anche se ha sempre rigettato quest'ultima etichetta.  Nascita26 settembre 1889, Meßkirch, Germania. Decesso26 maggio 1976, Friburgo in Brisgovia, Germania
  • 5-Oswald Spengler è stato un filosofo, storico e scrittore tedesco, autore, tra le altre opere, de Il tramonto dell'Occidente.  Nascita:29 maggio 1880, Blankenburg, Germania. Decesso8 maggio 1936, Monaco di Baviera, Germania
  • 6-Gottfried Benn è stato un poeta, scrittore e saggista tedesco. Nascita: 2 maggio 1886,  Decesso: 7 luglio 1956, Berlino, Germania
  • 7-Richard McKay Rorty è stato un filosofo statunitense. Ebbe una lunga carriera nel campo degli studi umanistici, filosofici e letterari. La sua variegata esperienza intellettuale lo avvicinò alla tradizione analitica che rigettò in una fase successiva. Nascita: 4 ottobre 1931, New York, Stato di New York, Stati Uniti. Decesso: 8 giugno 2007, Palo Alto, California, Stati Uniti

  • 8-Karl Theodor Jaspers è stato un filosofo e psichiatra tedesco. Ha dato un notevole impulso alle riflessioni nel campo della psichiatria, della filosofia, della teologia e della politica. Nascita: 23 febbraio 1883, Oldenburg, Germania. Decesso: 26 febbraio 1969, Basilea, Svizzera

(Il testo, elaborato a soli fini didattici, include contributi da opere di Guido Barbujani e Umberto Galimberti).

* Armando Cittarelli, ha collaborato a  Riviste su temi di attualità e letteratura, e  pubblicato soprattutto libri di poesia: “A mezza voce” (1983, Io83), “Titolo da definire” (1989,  Firenze Libri),  “La rivoluzione del calendario” “La stanza delle donne” (2004, Ed. Aleph),“La Bottega” (2012, GEE),“Carta pesante” (2017, Innuendo), ed alcuni saggi: “Una politica per la città” (2001, Ed. Aleph), “Terracina non-luogo” (2011, Instant Book), e l'ultimo "L'Albero della politica" (2018, Innuendo). 

 

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